Il primo ragazzo, anche se non nato in Basilicata ma lucano a tutti gli effetti, a laurearsi all’Università di Basilicata, in ingegneria con 110 e lode, il primo dei laureati lucani a conseguire il dottorato di ricerca, Michele Greco, professore associato di idraulica, Pro Rettore dell’Ateneo lucano , autore di oltre 100 memorie nel settore dell’idraulica, idraulica fluviale e idraulica marittima, non nasconde il suo disappunto per come si sta svolgendo nella società lucana il dibattito sull’Università di Basilicata, sul suo ruolo, sulle carenze e sulla presunta mancanza di attrattività. Si vola basso, dice, seguendo una narrazione non veritiera, che non coglie la sostanza del problema e rischia di alimentare un qualunquismo che danneggia la stessa Basilicata. Con lui cerchiamo di chiarire alcuni punti che pure sono emersi nel dibattito di questi giorni .
La diminuizione degli studenti. Quali le cause?
Molte, ma tra queste sicuramente non c’è la qualità della formazione che qui in UniBas viene fornita. Lo dimostrano le tante storie di successo degli studenti, lo dimostrano la capacità di competere nelle specializzazioni anche fuori regione e l’apprezzamento che ricevono in altre sedi universitarie nella frequenza di master e nel mondo del lavoro. Tra le cause, mettiamoci una certa emulazione , la voglia di provare esperienze in grandi città, ma soprattutto il contesto lavorativo che le metropoli offrono, con un ambiente economico-imprenditoriale che è estremamente ricettivo rispetto alle professionalità che escono. Studiare in un ambiente che di per sé garantisce futuro,è dirimente rispetto alla scelta di molte famiglie. Ma che qui si studi bene è fuori discussione: c’è un rapporto professori studenti che va da 1 a 20, e non da uno a duemila come succede nelle grandi università dove sei un numero e non sei “seguito”. E questo contribuisce tantissimo a dare basi forti allo studente ed opportunità di relazionarsi in maniera diretta con il docente.
Non può negare che nelle grandi Università c’è una maggiore scelta di corsi…
Questo, è vero, è un problema ma proviamo a darne una semplice spiegazione. La riforma Gelmini da questo punto di vista ha limitato le piccole Università. Qui prima un docente poteva tenere anche più corsi, ma dal 2010 questa elasticità è venuta meno e per aprire un corso di studi non solo si va incontro ad un mare di difficoltà burocratiche ma occorre dimostrare la presenza di un adeguato numero di nuovi docenti, così che mentre nelle Università delle grandi cifre i docenti sono anche in soprannumero e quindi diventa semplice ottenere nuovi insegnamenti ,nelle piccole per ogni nuovo corso bisogna farsi carico dell’assunzione di almeno una decina di docenti, con notevole dispendio di risorse che ovviamente non ci sono, considerando che le iscrizioni possono coprire solo fino al 25 per cento del costo e che la nostra Università si è indirizzata da subito, sulla base delle disponibilità strutturali, a mantenere quanto più ampia possibile l’offerta didattica a fronte di basse le quote di iscrizione e ciò per favorire quanto più possibile il tessuto sociale e territoriale.
Il fatto però è che in questi decenni si è registrato un decremento di iscrizioni, passate da 12 mila ai seimila di oggi..
Diciamo le cose come sono. Il contesto economico fa la differenza e la crisi occupazionale di questi anni diventa un movente notevole per scegliere territori economicamente più forti. E’ un problema che coinvolge tutti, la politica, le istituzioni, gli imprenditori, le forze sociali e , quindi, anche l’università, che ancora non hanno indirizzato i loro sforzi verso un progetto complessivo di sviluppo fondato sull’innovazione tecnologica, sulla modernizzazione delle imprese, sulla sperimentazione di nuovi processi produttivi e sulla formazione di energie professionali nuove. Qui la presenza dei grandi stakeholder , come l’Eni, la Total, la Stellantis, così come la Ferrero e la Barilla ed altri soggetti imprenditoriali è stata sfruttata dal punto di vista delle compensazioni ambientali, delle rojalties, del gas gratuito, certamente importante come effetto economico sociale, ma non da quello più strutturale di creazione della “modernità”, in termini di attività nuove e di nuove professionalità legate a processi e dinamiche industriali ed imprenditoriali che la svolta ecologica sta richiedendo e sollecitando. Che cosa significa la costruzione di droni, in un territorio che a valle delle risorse acqua e di petrolio e di gas dovrebbe far crescere tutta una nuova economia moderna propria della transizione ecologica?.
Sembra che Lei faccia ancora affidamento sulle compagnie petrolifere, ma non si va verso la decarbonizzazione?
Proprio per questo. Qui si tratta di mettere in atto un grande piano di decomissioning che punti a spegnere la parte fossile per accendere la parte sostenibile. Bisogna passare dal fossile al green, con una strategia che veda la Basilicata al centro di questa transizione, non solo in termini di investimento su nuove fonti energetiche, ma in tema di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie, di nuovi processi con cui attuare la svolta ecologica, con innovazioni che contagino tutti i settori, dall’agricoltura di precisione, alla tecniche per il riutilizzo delle acque reflue, alla depurazione, allo sfruttamento delle acque depurate da residui industriali , come sta avvenendo, ad esempio, per il progetto blue water portato avanti dall’Eni in val d’Agri, consapevoli che la sperimentazione a scala reale rappresenta uno dei migliori metodi di validazione dei risultati della ricerca applicata, e dove la condivisione e la partecipazione dei cittadini e dell’associazionismo ambientale ed imprenditoriale può rappresentare il legittimo strumento di valutazione della sostenibilità di tali modelli . E poi al contrasto alla siccità: scordiamoci quel miliardo di mc di acqua che gli invasi lucani sono riusciti a raggiungere nei decenni scorsi; oggi i cambiamenti climatici ci toccano da vicino ed è qui che bisogna investire in ricerche , in sperimentazioni in tecnologie e in cambiamenti anche colturali. Quindi un grande progetto fortemente interdisciplinare di visione che porti ricadute in molti settori che sono quanto mai strategici per la Basilicata.
Lei, in altre parole,mi sta dicendo che rispetto a queste grandi presenze industriali, noi non osiamo alzare il livello del confronto, accontentandoci di quello che passa il convento, un po’ di occupazione, un po’ di indotto, il gas gratis e non aprendo il confronto sul ruolo strategico che un hub energetico deve avere in questa svolta?
Se in gioco c’è il futuro di questa regione- e di questo si tratta- allora non possiamo pensare che dopo lo sfruttamento del fossile, noi si rimanga, tra un decennio, con pezzi di archeologia industriale e senza futuro. E’ necessario osare e pretendere che le compagnie petrolifere, l’imprenditoria locale, le associazioni datoriali in genere , le istituzioni scientifiche e l’Università si siedano intorno ad un tavolo per disegnare il futuro in questo decennio che sta preparando la transizione ecologica . Osare significa arrivare a progettare in Basilicata, mi faccia passare l’enfasi, il Polo della transizione nel Mediterraneo, mettendo al centro tutte le più importanti tematiche , dal contrasto alla siccità, al corretto sfruttamento delle fonti energetiche, alle tecniche di produzione di nuove energie da fonti rinnovabili, ai modelli alternativi di gestione del territorio, alla preparazione di professionalità specifiche in grado di portare nei paesi del Mediterraneo le nuove esperienze, di aprire nuovi scenari di relazioni imprenditoriali in tutti i settori. E proprio per il ruolo che l’Eni sta assumendo nel Mediterraneo con i nuovi accordi che ne fanno punto di riferimento dei Paesi produttori ed esportatori di gas, non si vede perché la formazione delle professionalità di quei paesi non debba vedere come punto di riferimento l’hub energetico della Basilicata e quindi l’Ateneo lucano come centro di eccellenza per l’innovazione e per la transizione .
Ma veramente ritiene che ci siano le condizioni per andare tutti insieme in questa nuova direzione?
Lo auspico, lo immagino, lo sogno ad occhi aperti. Ma non mi nascondo le difficoltà che nascono da fuori e da dentro. Da fuori perché, scevro da demagogia e retorica, le grandi imprese non hanno mai investito più di tanto sul territorio, o meglio non hanno mai affrontato il tema della crescita economica come vero ristoro di un territorio. Da dentro perché la classe imprenditoriale non ha mai fatto veramente i conti con la necessità di alzare l’asticella della competizione globale, affrontandola dal lato dell’innovazione tecnologica e della ricerca. E, sempre da dentro, per quella sostanziale incapacità di fare squadra, di concentrare le risorse, di valorizzare senza invidie la classe dirigente presente in regione, insomma di mettersi insieme per un crescere comune. Cosa che, per alcuni versi, ha anche determinato il pieno sviluppo delle regioni del Nord oltre che la vicinanza fisica ed infrastrutturale all’Europa.
Veramente è una critica che dovrebbe comprendere anche il mondo universitario, chiuso in se stesso e in parte autoreferenziale.
Glielo concedo. Anche qui c’è un malinteso concetto dell’orticello che spesso inibisce la messa in circolo di potenzialità pure esistenti. Un certo provincialismo che non è più giustificabile in un’epoca di competizione globale, dove bisogna crescere unendosi e confrontandosi. E’ una questione culturale da affrontare, ma è anche una questione politica nel senso che c’è chi ha il compito istituzionale di tracciare la rotta e di mettere insieme gli attori del cambiamento. E da questo punto di vista, al momento, non mi giudichi banale e sempliciotto, non si vedono progressi. E’ auspicabile veramente che ci si dia una traccia di lavoro tutti insieme per invertire la tendenza al progressivo spopolamento e svalutazione, nonché svilimento, di questa comunità regionale. Ed è ora che chi di dovere suoni la sveglia e si armi da subito di un legittimo moto di orgoglio. Rocco Rosa